Dalle parole ai fatti. Se gli utenti, nel mondo, sono preoccupati per la sorte e per il trattamento poco trasparente che i loro dati subiscono una volta inseriti nei circuiti della Rete, come lo scandalo Datagate ci ha tristemente insegnato, le multinazionali americane rispondono. Microsoft, in particolare, in queste settimane potrebbe diventare capofila di una decisione sicuramente destinata a far parlare di sé.
Da Redmond, infatti, fanno ufficialmente sapere che, a breve, tutti i dati personali degli utenti non residenti negli States saranno trasferiti all’interno di server collocati al di fuori degli Stati Uniti: di fronte all’imbarazzo internazionale creato all’amministrazione Obama dalle dichiarazioni dell’ex agente dell’Nsa Edward Snowden, molto meglio, per le aziende It a stelle e strisce, scaricarsi di ogni responsabilità nella gestione di materiale così sensibile. La mossa di Microsoft, non a caso, è stata applaudita dagli attivisti della privacy, che da tempo reclamavano maggiore tutela e sicurezza relativamente alla gestione delle informazioni online, anche se, ora, gli effetti di una simile decisione sono tutti di natura economica. Come hanno fatto giustamente notare altri marchi del settore informatico, spostare un server da un Paese all’altro non è un’operazione banale: cambiano le leggi e le norme specifiche ma, soprattutto, si rischia di perdere il controllo dei costi, dal momento che costruire nuovi data center, dotati delle necessarie misure anti intrusione, comporta per le compagnie esborsi finanziari notevoli. Spese che, in qualche modo, finiscono per ricadere sulle spalle dei clienti, in particolare le start up. E allora? Qual è il male minore? In un contesto globalizzato in cui i dati tendono in fondo a diventare commodity, vale ancora una difesa così radicale della loro inviolabilità?