La privacy del cittadino conta più della sicurezza: è una sentenza che apre molti interrogativi e che sicuramente segna un pezzo di storia quella con cui la Corte di Giustizia Europea ha recentemente abrogato la direttiva UE sulla conservazione dei dati personali. Promulgata nel 2006 sull’onda emotiva degli attentati alle Torri Gemelle e sulla scia della conseguente politica di repressione sfrenata del terrorismo internazionale intrapresa dal governo Bush, la norma ha fino ad oggi previsto che qualsiasi comunicazione elettronica compiuta dai cittadini europei nei confini dei 28 Paesi membri fosse conservata per un periodo variabile da 6 a 24 mesi.
Motivazioni di ordine e sicurezza pubblici, hanno sempre spiegato i giudici della Corte del Lussemburgo. Gli stessi che ora, evidentemente sulla scorta di un altro episodio eclatante, quello relativo al Datagate, hanno cambiato la prospettiva di giudizio.
“La norma comporta un’ingerenza di vasta portata e di particolare gravità nei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale, non limitata allo stretto necessario” si legge nella sentenza che ha posto fine al regime di controllo sistematico dei nostri dati da parte di Bruxelles.
Eh già, perché dal 2006 di acqua sotto i ponti ne è passata, e la Rete è diventata uno spazio troppo grande per poter distinguere in maniera legittima che cosa è giusto guardare e cosa invece porta a un voyeurismo degno del miglior Grande Fratello. Non a caso, i giudici della suprema corte hanno aggiunto che “tali dati, considerati congiuntamente, possono fornire indicazioni assai precise sulla vita privata dei soggetti interessati, sulle loro attività, sulle loro relazioni”. Come a dire che non esiste sospetto che valga un’intrusione nella nostra vita quotidiana. Puntuale il tweet del commissario alla Giustizia Viviane Reding: “La sicurezza non è un super diritto che prevale sulla legislazione della protezione dei dati”.